Una gara. Una gara con me stessa. Una volta all’anno cerco di mettermi in gioco, e superare i miei limiti. Non sarebbe necessario, ma ho bisogno di sapere che il mio corpo, se pur difettoso, funziona, e che, come tutti, posso arrivare dove voglio. E oltre.

Così sono partita, consapevole di non essere allenata abbastanza, di non avere sulle gambe i chilometri necessari per affrontare serenamente una maratona in montagna.

Ho cercato di non pensare alla fatica, alle conseguenze sul mio corpo, concentrandomi sull’impresa. E sono partita a cuor leggero con l’entusiasmo di sempre.

Ma 42 chilometri non sono mai uno scherzo. Mai.

Il dislivello non era molto, e questo, per una come me abituata a correre su e giù, è stato un ostacolo in più. La testa che ci vuole per una maratona in piano è diversa da quella che basta per un trail. Che è più cuore. Più anima.

Parto con un gruppetto di amici che perdo subito. Parto piano, come mi ha detto Theo. La strada è lunga. Ho subito un problemino fisico che risolvo. La strada asfaltata non mi piace. Il silenzio dei corridori vicini è assordante. Il rumore secco della strada mi stride nelle orecchie.

Finalmente il sentiero e il bosco. Il mio bosco. Sto meglio, sono felice. Riesco a respirare bene e corro sicura in salita. Piano. Per conservarmi. Un moscerino grande come una libellula mi entra nell’occhio. Fastidioso e ormai morto presumo. Mi sembra di averlo eliminato. Fino a San Martino di Castrozza sono 16 chilometri di salita, ripida solo a tratti, per il resto corribile. E io corro. Arrivo in piazza a San Martino sorridente e in ottima forma. Rimango un attimo con gli amici che mi hanno aspettata in paese, e poi riparto. “Sto bene, tranquilli”.

Da lì il sentiero lo conosco bene. Fatto mille volte come allenamento fino a Malga Crel e al lago di Calaita. Una strada forestale in leggera salita e poi un sentiero abbastanza in piedi ma breve, che esce al cospetto del meraviglioso lago di Calaita. Lì, corricchiando sopra quei pietroni maledetti, già comincio a sentire, cioè, a non sentire, le gambe. Passo il ristoro. Chiedo quanto manca.

16 chilometri. 16 chilometri. In discesa. Sono troppi. Non ce la faccio.

Le gambe cominciano a tremare. E quella che doveva essere una corsa liberatoria in discesa fino a Fiera di Primiero, è una camminata alternata ad una corsa trascinata, su due gambe quasi anestetizzate dalla fatica. Sono sola. Sono sola da 26 lunghissimi chilometri.

Chiamo Theo, gli riassumo la situazione, ma metto giù quando sento che la voce mi si sta rompendo. “Vengo giù con calma, alla peggio ti chiamo….”. Ma so che non l’avrei mai fatto. Non avrei mai mai mollato.

Cerco di non pensare a quel 16. Alla fine sono solo tre volte 5…. + uno, l’ultimo. Mi supera la bisnonna che avevo sempre tenuto d’occhio (le signore/trail runner sono davvero incredibili!). La vedo scomparire in mezzo al bosco. Mi supera una ragazza cicciotta con le racchettine. Tic tac tic tac. E mi sorride. Probabilmente devo avere un aspetto davvero orribile. “Non mollare” mi dice. “Mancano solo 13 chilometri!”. Voglio morire.

Poi entro di nuovo nel bosco. Un tratto del sentiero che non avevo mai visto. Incredibile. Il bosco incantato. Una single track incassata nella terra e nel muschio. Abeti altissimi, fiori colorati e un ruscello limpidissimo. La luce che entra timida attraverso gli aghi degli alberi, creando disegni luminosi tutt’intorno. Sono completamente da sola. Ecco perchè corro in montagna. Ecco perchè mi sto mettendo alla prova. Mi si scoglie il nodo in gola e comincio a piangere, contemporaneamente mi si sciolgono le gambe e comincio quella che sarebbe stato l’ultima vera corsa della mia maratona. Libera, veloce, felice e molto precaria. Quasi ad occhi chiusi.

Il sentiero magico si immette nell’ennesima strada forestale. Ho i crampi in ogni punto delle gambe e l’anca mi procura un dolore così forte che ho paura che sganci gli arti inferiori e li lasci lì. 11 chilometri al traguardo. 11 chilometri trascinati faticosamente, in silenzio. Senza pensare troppo e stringendo i denti.

Poi, incredibilmente, corro ancora. 4 chilometri. Con la leggerezza di un elefante, ma con quel mezzo sorriso di chi sa già che ce l’ha fatta. Passo la chiesa della Pieve, e imbocco gli ultimi 200 metri dritti verso il traguardo. Alzo le braccia e cerco di sorridere.

Lo passo. Mi fermo. Ho finito.

Dolori fortissimi. Cerco di fare un po’ di stretching. Non penso.

E poi penso. Mi alzo. Sono arrivata. Ce l’ho fatta. Ho vinto. Eccolo lì il sorriso distrutto che tira verso l’alto i bordi della mia bocca.

Un amico mi abbraccia.  Non riesco nemmeno a commuovermi. Perchè le emozioni le ho scaricate lungo tutto il percorso. Mi rendo conto che è stato davvero emozionante.

Heather mi osserva. “Cri, che cavolo hai dentro l’occhio?”. Il moscerino del terzo chilometro. Allora, non sono mai stata davvero sola.

Grazie alle mie montagne che silenziosamente mi hanno accompagnata alla fino al traguardo.

Grazie alle dottoresse che mi hanno permesso con i loro consigli di superare anche questa prova.

Grazie a me. E al moscerino che ha fatto la strada con me.

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